Ti sei mai chiesto perché probabilmente alcune persone hanno uno stile di vita che i più non hanno o non avranno mai? o perché alcuni raggiungono un grande successo professionale e altri no?
Viene poi quasi naturale per ciascuno paragonare la propria vita a quella di chi la fama e il successo li ha raggiunti e chiedersi perché certe occasioni non ci si siano mai presentate o perché non abbiamo avuto quell’idea lungimirante nonostante ora ci sembri ovvia e quasi scontata?
E’ lecito, anzi, direi quasi naturale porsi queste domande. Tutti affrontiamo quotidianamente dei problemi economici, lavorativi, affettivi che vorremmo poter risolvere. Ed è proprio in questo momento che scatta un meccanismo a livello psicologico che può portare in due direzioni diametralmente opposte, ovvero, un’analisi introspettiva sui limiti mentali autoimposti, da una parte, e la proiezione di una figura su cui incombe costantemente un’ineluttabile sfortuna, dall’altra. Entrambe porteranno, come potete ben immaginare, verso due modi completamenti diversi di affrontare i problemi e, in definitiva, la vita.
Cerchiamo di capire meglio queste due direzioni.
ANALISI INTROSPETTIVA SUI LIMITI MENTALI AUTOIMPOSTI
Sin dalla nostra nascita il nostro cervello registra tutte le esperienze che viviamo e le trasforma in informazione che, a seconda del tipo di esperienza, provocherà una reazione specifica. L’esperienza vissuta, piacevole o spiacevole, viene elaborata e trasformata in un archetipo che diventerà a sua volta potenziante o limitante.
A ciascuna esperienza associamo delle sensazioni che, sedimentandosi nella nostra memoria, non solo creano una reazione, ma inviano al cervello un messaggio che a sua volta attiverà dei meccanismi di autoprotezione o di rassicurazione.
Capita a tutti di non essere particolarmente portati nei confronti di certe materie o attività. Se una persona è particolarmente dotata in matematica, ma poco ricettiva con le lingue, è naturale che, crescendo, il suo cervello, e le sinapsi che si creeranno, assoceranno la matematica a un’esperienza positiva, mentre lo studio delle lingue a una negativa. Lo stesso si verifica, ad esempio, con i sapori (amari o dolci) con lo sforzo fisico (intenso, blando o addirittura assente), etc. A questi aspetti legati alla percezione della persona, si sommano le informazioni che arrivano dall’esterno, cioè, gli apprezzamenti o i rimproveri, e, perché no, in certe occasioni, anche umiliazioni. E’ chiaro che gli apprezzamenti generano gratificazioni che ci portano ad andare avanti in qualsiasi cosa facciamo nonostante le difficoltà e tutto l’impegno richiesto. Al contrario, invece, rimproveri e umiliazioni possono rendere qualsiasi attività soffocante, frustrante e difficile da sopportare.
Queste reazioni non sono altro che una proiezione degli archetipi che il nostro cervello ha costruito durante la nostra vita.
Resta indubbio che certi messaggi d’allerta possono essere legati all’istinto di sopravvivenza, per cui il dolore dopo una caduta o un taglio, la paura di ferirsi o di morire in certe situazioni di chiaro pericolo, etc., svolgono di certo una funzione diversa, ma che in molti casi non è da considerarsi limitante. Chi desidera raggiungere la vetta dell’Everest sarà sempre in stato di allerta perché sa che durante la scalata potrebbe capitare una qualsiasi fatalità, ma non per questo lo scalatore se ne sta a casa a fare magari altre attività in totale sicurezza. Valuta i pericoli, di cui è consapevole, ma la sensazione di gioia che sperimenta durante l’ascesa e dopo aver raggiunto il traguardo, sono più forti delle paure. Lo stesso quando, banalmente, si guida la propria macchina in autostrada o si pedala la bicicletta su sentieri stretti. Il cervello ci manda continuamente dei messaggi che ci permettano di valutare costantemente i potenziali pericoli e di mettere in atto delle azioni per garantire la nostra incolumità.
In altri casi però, i messaggi d’allerta nascondono, in realtà, dei messaggi di autosabotaggio, per cui certe esperienze spiacevoli ci convincono che siamo incapaci di compiere determinate azioni fisiche, intellettuali, etc. Riprendiamo l’esempio di chi non è portato per le lingue. Resta chiaro che d ogni tentativo di studiare una lingua il suo cervello gli proietterà un’immagine archetipica negativa per farlo desistere, in modo da evitare la sensazione di frustrazione. Tuttavia, se si ha la prontezza e la capacità di discernere tra l’istinto vero di sopravvivenza e un autosabotaggio è possibile cominciare ad associare a quell’esperienza, solo in apparenza negativa, delle sensazioni gratificanti.
Ricapitolando: esistono archetipi potenzianti e limitanti, ciascuno dei quali porta a una reazione specifica. Inoltre, gli archetipi limitanti possono essere generati da un naturale istinto di sopravvivenza o da un meccanismo di autosabotaggio.
Un’analisi introspettiva sui nostri pensieri limitanti, e spesso autoimposti, e tenendo a bada quanto detto prima, è il primo passaggio per iniziare ad affrontare i problemi in maniera completamente diversa. Non si tratta di non avere problemi o di vivere una vita priva di fatiche. Si tratta piuttosto di capire il potenziale manifesto, ma anche inespresso, che possediamo e di esplicarlo in ogni azione della nostra vita.
ACCETTAZIONE DI UN’INELUTTABILE OMBRA DI SFORTUNA E LA RICERCA DI COMMISERAZIONE
In direzione diametralmente opposta, invece, si trova l’atteggiamento che cerca la continua giustificazione della propria disavventura o delle proprie frustrazioni.
Appurato il fatto che chiunque è in grado di raggiungere grandi obiettivi nella propria vita e che, indubbiamente, esistono dei fattori esterni sui quali non abbiamo alcun controllo, spetta a ciascuno fare un’analisi introspettiva sugli archetipi che la nostra mente costruisce e di infrangere alcune delle proiezioni che ci facciamo, vuoi per paura, vuoi per una tendenza verso la passività o la remissività.
Molte persone, con un grande potenziale, purtroppo preferiscono delegare ad altri la propria felicità professionale, affettiva, o di incolpare i problemi della vita per il proprio stato fisico, la propria mancanza di obiettivi e, qualora gli obiettivi ci siano, dell’assenza di mezzi per poter realizzarli. Delegare ad altri ciò che è di nostra competenza ci provocherà sempre grandi frustrazioni. Ci legherà a delle catene che diventeranno sempre più pesanti e strette.
Spesso si parla di zona di comfort, e questo atteggiamento risponde proprio a questo: uno spazio nel quale poter crogiolarsi delle proprie sventure, cercando la commiserazione altrui, qualcuno che venga a darci tutto ciò che vorremmo essere o avere.
Ci sono eventi traumatici che possono portare a questo tipo di situazione, ma in quel caso il percorso da fare è molto diverso perché entrano in gioco altri fattori per i quali un sostegno anche psicologico potrebbe essere fondamentale e perentorio.
Negli altri casi, invece, è solo passività e remissività. Paura di guardare in faccia la realtà, la propria realtà, e di fare un’analisi coscienziosa dei propri comportamenti, cercando di sovvertire la paura, la pigrizia, l’incertezza, e di incamminarsi verso la meta che si desidera raggiungere. Sarà sempre faticoso, ma lo è ancora di più restare sempre a lamentarsi della propria vita senza fare assolutamente niente.
Due atteggiamenti diversi, due reazioni diverse e dunque due risultati diversi. Questo vuole essere un invito a scavare nei propri limiti e individuare quei messaggi che il nostro cervello ci invia in maniera subdola, in maniera da affrontarli e gradualmente modificare gli archetipi limitanti autoimposti.
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